Il jihadismo in Africa: il terrorismo dimenticato (1/2)

Mathilde L’Hôte, tradotto da Letizia Garlatti
20 Septembre 2016



Secondo un rapporto del 2015 sul terrorismo mondiale pubblicato dall’Institute for Economics and Peace, il numero di vittime e attacchi del terrorismo è “aumentato drasticamente negli ultimi quindici anni”. Nonostante il loro numero sia considerevolmente cresciuto, soprattutto nel Medio Oriente, con lo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, la Nigeria rimaneva il secondo Paese con il più alto numero di vittime del terrorismo nel 2014. Da qui, il desiderio di indagare sulle realtà di un fenomeno modiale, sul suo ruolo e la sua influenza sul continente africano, il quale, se non meno violento, sembra essere sottovalutato. Le Journal International focalizza l’attenzione su questo terrorismo “dimenticato”.


L’AMISOM e l’esercito nazionale somalo cercano di respingere Al Shabaab lungo il corridoio di Afgoye. Fonte: Flickr/AMISOM Informazione Pubblica
L’AMISOM e l’esercito nazionale somalo cercano di respingere Al Shabaab lungo il corridoio di Afgoye. Fonte: Flickr/AMISOM Informazione Pubblica
Da diversi decenni il continente africano è sede di vari movimenti ed azioni terroristiche. Al giorno d’oggi, questi movimenti, che si sono evoluti o sono emersi sulla scena, assumono un’importanza non trascurabile. Trovano origine nel periodo seguente alla primavera araba, alla base di una profonda destabilizzazione e riconfigurazione (geo)politica della regione. Per comprendere meglio la natura di questi gruppi jihadisti e i pericoli che rappresentano, analizziamo i tre principali gruppi presenti nel continente africano, dal Sahel al Corno d’Africa, passando per la Nigeria: Al-Qaïda nel Maghreb Islamico (AQMI), Boko Haram e Al-Shabaab.

Fratture economiche e disuguaglianze sociali alle origini di Boko Haram

La ripartizione delle ricchezze in Nigeria è diseguale, nonostante il Paese africano presenti un notevole potenziale economico, in quanto primo esportatore di petrolio. Dagli ultimi dati disponibili della Banca Mondiale, è emerso che il 39,1% della popolazione viveva con meno di 3,10 dollari al giorno nell’anno 2011 e il 49% dei profitti era detenuto dal 20% dei più abbienti nell’anno 2009. Il nord del Paese è assai meno sviluppato e, dal 2000, le disuguaglianze sono aumentate nella zona. Il proliferare di Boko Haram nel 2002 ha inizialmente fatto leva su queste disuguaglianze economiche, ma anche sociali, nello stato del Borno, parte sud est della nazione, che presenta un tasso di povertà e di analfabetizzazione tra i più alti del Paese, insieme a uno scarso tasso di istruzione. Tutti questi fattori, che “rendono gli individui più vulnerabili alla radicalizzazione e alla violenza”, sono terreno fertile per un tale genere di organizzazione, dalle parole di Xavier Aldekoa, giornalista freelance in Africa.

Al contempo, Boko Haram si è scontrato più volte con le forze di sicurezza del Paese, soprattutto nel nord est. Nel 2003, in seguito ad alcuni conflitti con le forze di sicurezza, Ali Moddu Sheriff viene nominato governatore dello stato del Borno e colloca un membro di Boko Haram al ministero degli Affari Religiosi. In seguito, l’applicazione della sharia si inasprisce con la creazione di scuole coraniche aperte a tutti. Per una popolazione che, per la maggior parte, non aveva accesso all’istruzione, queste scuole diventano una nuova alternativa contro il senso di abbandono da parte del potere centrale corrotto. Nel luglio 2009, una nuova rivolta del gruppo terrorista nel nord est del Paese è brutalmente repressa dalla forze di polizia nigeriane. Questa repressione militare ha “contribuito all’evoluzione del modus operandi di Boko Haram” che diventa ancor più radicale e violento, secondo Xavier Aldekoa. Ciò spiega la rapida evoluzione di un movimento religioso che si è alimentato in principio di una profonda crisi sociale e si è poi nutrito di violenza e di una forte repressione statale per instaurare una forma di califfato nelle zone settentrionali del Paese.

Mancanza di governo, scontri politici e istituzionali: origini e ascesa di Al-Shabaab

Nonostante il gruppo Al-Shabaab sia stato creato ufficialmente in Somalia nel 2006 da Aden Hashi Farah, il jihadismo nasce nel Paese negli anni Ottanta, alimentato da un vuoto politico e istituzionale sempre più grave. In seguito al rovesciamento dell’ex presidente Siyad Barre nel 1991, il Paese si è diviso in modo istituzionale con la creazione del Somaliland, nel nord, lo stesso anno e del Puntland, nel sud, nel 1998. Dopo la nomina di un governo provvisorio nel 2004, le violenze si intensificano, portando alla luce un vero e proprio processo di distruzione della società in termini di scelta del sistema politico somalo.

Davanti a un governo centrale inesperto e debole, i gruppi più radicali del movimento Unione dei Tribunali Islamici (UTI) progettano di instaurare uno stato governato dalla sharia. Nel 2006, l’UTI estende la sua influenza nel sud del Paese, ma l’Etiopia la caccia dal territorio alcuni mesi più tardi. Al-Shabaab si distacca quindi dall’unione e decide di combattere il governo provvisorio autonomamente.

Anche se Al-Shabaab si impegna dunque in una lotta politica interna contro il governo federale provvisorio, allo stesso tempo segue una logica di internazionalizzazione, alleandosi con Al-Qaïda nel 2009. Il gruppo compie attentati al di fuori del territorio, come in Kenya, ma il suo controllo sulle terre nazionali della Somalia si indebolisce. Secondo il giornalista Xavier Aldekoa, se il gruppo sembra trovarsi in una fase di «guerriglia» a causa della perdita di potere, questo cambiamento presagisce una “lotta impari che rischia di diventare a lungo termine

Primavere arabe e questione dei Tuareg: destabilizzazione geopolitica al servizio dell’AQMI

L’AQMI è sicuramente il gruppo jihadista più importante e influente del Sahel. Si sostiene grazie a gruppi jihadisti minori come Ansar Dine, Mujao o Ansar Al-sharia. Innanzitutto, occorre contestualizzare il loro sviluppo in senso politico e storico. Negli anni Novanta, la guerra civile algerina è segnata dalla presa di potere dei gruppi terroristici come il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC). A partire dal 2003, quest’ultimo si installa a livello regionale nel Sahel a causa di un contesto politico instabile dovuto a vari fattori: disoccupazione, corruzione, confini instabili, forte presenza del traffico di droga. Nel 2006, diversi gruppi jihadisti presenti nel Sahel si uniscono e prestano fedeltà ad Al-Qaïda, fondando il gruppo affiliato AQMI nel 2007. La morte di Gheddafi, avvenuta nel 2011, destabilizza ulteriormente la regione, abbandonando lo stato libico in preda a molti gruppi e milizie armate che approfittano dei depositi e dei flussi di armi incontrollati.

Allo stesso tempo riemerge la questione dei Tuareg, la cui popolazione stimata a 1,5 milioni si espande su cinque stati. Di fronte ai problemi di assimilazione incontrati dalla popolazione Tuareg in numerosi paesi, alcuni gruppi prendono posizione per l’indipendenza. Nel 2007, il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA), un’organizzazione politica e militare Tuareg attiva nel nord del Mali, stringe alleanza con i gruppi jihadisti presenti per far ascoltare il loro malcontento e ottenere una risposta alle loro richieste. A partire dal 2011, questa coalizione trova nuove alleanze in gruppi armati, radicalizzati dalla loro esclusione dal potere durante la colonizzazione, oltre che dalla loro emarginazione dall’indipendenza del 1960. Con una forte influenza nel nord del Mali, sotto il suo controllo, nel gennaio 2012 la coalizione lancia un’offensiva che spinge la Francia all’intervento con l’“operazione Serval".

La seconda parte di questo articolo è disponibile qui.

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