Dividere per regnare al meglio: gli alawiti e il regime di Damasco

Salomé Ietter, tradotto da Davide Fezzardi
23 Juillet 2015



Con lo Stato Islamico che mercoledì 27 maggio ha giustiziato 20 sciiti alawiti e il leader del Fronte Al-Nusra che invita gli alawiti a convertirsi all'Islam sunnita per garantire la sicurezza nella Siria di domani, questa religione pone molte domande in Siria. Chi ne fa parte? Possiamo definire il regime al potere come un «regime alawita» ?


di Bruno Paoli
di Bruno Paoli
Secondo Bruno Paoli, ricercatore presso l'Institut Français du Proche-Orient, gli alawiti costituiscono il 10-12% della popolazione siriana per un totale di 2-2,5 milioni di persone. Alcuni vivono anche nel Nord del Libano e in Turchia. L'origine storica di questo ramo dell'Islam sciita è poco conosciuta e risale al IX secolo. Dopo aver vissuto un periodo di espansione nel X secolo, i fedeli di questa religione ripiegarono verso la «montagna-rifugio» sulle coste occidentali della Siria a seguito dell’arrivo dei Mamelucchi che dichiaravano di appartenere all’Islam sunnita. L'alawismo è quindi una religione anche se oggi è molto legata ai rapporti di parentela e alla comunità. In quanto religione è praticata in modo molto discreto, per non dire segreto. Per questo alcuni la considerano come un'interpretazione esoterica di tipo iniziatico del Corano. I fedeli di questa religione si distinguono anche per le loro tradizioni «laiche»; in effetti questa pratica religiosa non prevede la frequentazione di moschee, le donne non portano il velo ed è tollerato l'alcool.

di Marion Hillaire. Fonte: Arte
di Marion Hillaire. Fonte: Arte
Tuttavia occorre ricordare che la stessa «comunità» non è omogenea e che i metodi di categorizzare i popoli sono tutt’oggi approssimativi. Hanno anche l'enorme difetto di generalizzare discorsi e prese di posizione e di spiegarli in termini di appartenenza religiosa, comunitaria e, spesso, etnica. Alcuni considerano quindi l’alawismo come il sostegno al regime di Damasco mentre altri sono allarmati di fronte ad una minoranza vittima del jihadismo islamico. 

Fusione, generalizzazione e luoghi comuni

Una delle fusioni più stigmatizzanti è l'associazione fatta da parte di numerosi media fra regime di Assad e «regime alawita». È un dato di fatto: nel governo e nell'esercito la maggior parte dei membri è di religione alawita. Tuttavia, escludendo l'élite, i funzionari medi sono allo stesso livello dei colleghi di altre confessioni. In realtà il potere è più un affare di famiglia che di religione. Nel caso specifico, gli Assad, che hanno la famiglia in gioco, hanno capito bene l'interesse politico di fare leva sull'appartenenza religiosa. 

Si tratta a prima vista di una politica di inclusione che gli Assad, padre e figlio, hanno condotto in Siria. Dagli anni '30, il partito Baath ha conquistato il potere proponendosi come difensore delle minoranze rispetto alla maggioranza sunnita; questo riflette per altro il comportamento della Francia fra gli anni '20 e '30, la quale aveva tutelato la minoranza alawita siriana, più per strategia politica che per preoccupazione. Il partito Baath si è imposto al potere dal 1963 con la giunta militare. L'avvento al potere di Hafez al-Assad dividerà i sostenitori fra l'orientamento nazionalista, favorevole all'unione araba e all'ostilità verso Israele, e una visione più progressista incentrata sulle lotte socialiste. Il regime Baath mostrava quindi una facciata laica ma d’altra parte continuava a sostenere anche l’appartenenza alla comunità. Sono state prese decisioni contraddittorie come la costruzione di varie moschee, con Hafez al-Assad, per garantirsi il sostegno delle autorità religiose.

Oltre a questa politica d’inclusione, è stato applicato un vero e proprio «filtro» della società con la comunità alawita di cui è parte la famiglia Assad. Stabilitisi un tempo presso la «montagna- rifugio», agli alawiti è stato concordato il trasferimento nelle città con l’avvento al potere di Hafez al-Hassad nel 1973. La collocazione di persone vicine agli Assad ai ruoli più importanti del governo e dell'esercito ha consentito di mantenere l’unità. D’altro canto, l'identificazione con la comunità permette il rafforzamento dell'idea per cui è necessario seguire il proprio leader. La percezione del potere attuale visto come il «male minore» contribuisce al mantenimento di questo sistema di filtraggio e vigilanza. Il popolo siriano ha quindi avuto tendenza ad associare gli alawiti con il clan al potere. 

La paura come principale strumento del regime

Dalle rivolte del 2011, la propaganda del regime siriano propone la minaccia jihadista e «sunnita». All'inizio delle rivolte, i siriani scendevano in strada indipendentemente dalle confessioni. Siccome alcuni speravano che Assad avrebbe proposto riforme prima del peggioramento della crisi, molti alawiti si sono aggiunti alle manifestazioni. Sono comparsi poi degli slogan che associavano gli «alawiti» ad «Assad» ed esortavano alla vendetta contro i suoi «sostenitori». Lo svolgimento delle manifestazioni ha così spinto più di una persona a ritirarsi, riflettere, ritentare e a ritirarsi nuovamente. Molti cedono alla minaccia, rinunciano alle manifestazioni e la loro mancanza di azione è percepita come l'approvazione silenziosa del regime. Come spesso accade nelle situazioni di conflitto, i rancori si ripercuotono sulle alleanze anche quando la credenza molto radicata per cui «il nemico del mio nemico è mio amico» si rivela spesso errata sul medio termine. 

Assad sfrutta queste percezioni, qualificando la rivolta contro il proprio regime come «rivolta sunnita e radicale». Così facendo «confessionalizza» il conflitto e quindi lo priva dei motivi politici, sociali ed economici. La comunicazione del regime cavalca l'onda del fenomeno mediatico relativo alla progressione dello Stato Islamico, ricordando costantemente al proprio popolo e alla comunità internazionale che, se cadrà, ci sarà il caos. Il modo con cui lo Stato Islamico ha conquistato Palmyra e le successive reazioni della comunità internazionale forniscono un esempio lampante. 

Il «marketing» di guerra

Queste sensazioni e credenze, causate in realtà più dalla paura che dall'ingenuità, comportano rischi molto concreti. Si sono verificati già molti scontri fra le varie confessioni. A maggio 2012, 108 persone sono state uccise nel villaggio di Hula. Gli assalitori hanno affermato di aver operato per conto del regime. Qualche tempo dopo, documenti e testimonianze descrivevano dei membri dell'Esercito Siriano Libero arrivati per massacrare delle famiglie convertite all'alawismo e allo sciismo soprattutto perché non si sarebbero unite alla ribellione. 

La regione include numerosi villaggi alawiti ed è sede di vari attacchi fra gruppi d'opposizione e forze del regime che forniscono armi agli abitanti alawiti e sciiti. Dopo meno di due settimane da questo fatto, ad al-Qubeir è stata imputata una strage ad alcune milizie a favore del regime e a degli alawiti provenienti dai villaggi vicini. Se è difficile in realtà sapere chi sono veramente gli autori di questi soprusi, una cosa è certa: la spinta mobilitatrice dei massacri è estremamente potente, sia che vengano attuati dalle milizie simpatizzanti per il regime che dai vari gruppi d'opposizione. Il popolo è lo strumento delle ambizioni politiche, prende parte a questi conflitti e resta così intrappolato in un circolo vizioso assassino. 

di Le Figaro, 2012
di Le Figaro, 2012
Anche se questi massacri coinvolgono varie comunità che si «rispondono» a vicenda, il Gruppo Internazionale di Crisi (ICG) teme una «pulizia etnica» sugli alawiti, una prospettiva il cui rischio aumenta in caso di caduta del regime, l'unico che sostiene di «proteggerli». Questa è diventata una delle principali poste in gioco del conflitto. 

Uno «Stato» alawita per il regime?

Dal punto di vista strategico, una delle possibili soluzioni per il regime è di ripiegare in vista di migliori opportunità. L'idea di creare un mini-Stato sulla costa ovest siriana con accesso al mare e con varie basi militari non è nuova ed era già stata avanzata molto tempo fa. Assad padre ha preparato questa regione a essere la più vivibile e vitale possibile. Questo «mini-Stato» avrebbe una terra ricca per l'agricoltura, un aeroporto nella Latakia, il porto di Tartus (che assicurerebbe il sostegno continuo della Russia) e il porto petrolifero di Baniyas.

La popolazione alawita in questa regione è quindi tornata a sentirsi unita con l'inizio del conflitto e la solidarietà della comunità si aggiungerebbe alla forza di questo «mini-Stato». Questo però non sistemerebbe la condizione delle relazioni fra la popolazione del mini-Stato e chi si trova nella «vecchia Siria». 

Il potere in Siria è più una questione di strategia politica che di religione e, allo stesso modo, l’opposizione è molto più motivata dal contesto individuale che dalla solidarietà della comunità. I leader hanno l’interesse ad applicare la strategia del «dividere per regnare al meglio»; questa strategia però non serve a niente se non c’è nessuno da dividere: il popolo in questione ma anche l'opinione pubblica di altri popoli. 

Notez